“Sono trent’anni che aspetto che qualcuno mi arresti, ero preparata a questo, non al sollievo.
[…]
Scappo, scappo da sempre”.
“Hai pensato a salvarti come potevi.”
“Lei non mi lascerà stare, tornerà di notte con i ragni, me la troverò davanti quando morirò.”
“Sarai in buona compagnia. Già adesso sono tre contro una: tuo papà, tuo fratello e la Cede, e noi andiamo in farmacia […]. Non è successo niente di serio” E mi carezza piano piano.
“Ma come faremo noi?”
“Come abbiamo sempre fatto”.

La storia

Spero non te la prenderai caro lettore o cara lettrice, se ti spoilero proprio le ultime righe di questo romanzo, ma mi perdonerai se ti dico che questo non è uno di quei romanzi in cui la fine non è poi così diversa dall’inizio.

Strega comanda colore è infatti la storia di una donna, la voce narrante, il cui nome non viene mai menzionato. Sappiamo tutto di lei poiché attraversiamo la sua vita, dai sei (capitolo 1) ai 42 anni (epilogo).

Non ti aspettare però una narrazione canonica, infatti gli sbalzi temporali la fanno da padrone, intervallati da numerosi aneddoti familiari. Perché quella che viene raccontata è in buona essenza la vita di una donna nata e cresciuta nei pressi di Piacenza e della sua costellazione familiare entro la quale spicca su tutte una figura: quella della nonna materna, Viviana, nonché la “strega” del titolo.

Caratteristica principale di questo personaggio? È, in buona essenza, una stronza. Tiene in pugno la famiglia della protagonista con la sua arma magica, i soldi, perpetuando umiliazioni e vessazioni. La bambina cresce e l’odio matura, fino alla decisione definitiva: la vendetta.

La vendetta

Una vera vendetta o solo apparente? Quanto possiamo giustificare una ragazzina cresciuta nell’odio? Si tratterà di un vero atto liberatorio o una firma indelebile sul contratto d’unione con un’inquietante senso di colpa?

Di soldi e di cose sarà sempre affamata la nostra protagonista: per tutta la sua vita tenterà di saziarsi, senza mai riuscirci, rimanendo fredda, imperscrutabile, sempre legata a quel passato all’ombra della nonna, dei debiti e del dolore.

“Mentre lui mi parla vedo ventimila euro di vestitini dimenticati nell’armadio a gocciolare pizzi, melassa e zucchero caldo, non faccio altro che montare a neve cose, sempre cose con cui credi di salvarmi, ma rimango a stringere il niente. I miei stracci non mi proteggono dal male.”

Sono molti gli accadimenti del libro (e della vita) che travalicano gli anni, passando attraverso tre generazioni.

Alcuni elementi ricorrenti sono la componente “stregonesca” (non solo la nonna è vista come una megera, ma anche la protagonista è sinistramente ammaliata dai rituali, anche incarnati dallo shopping compulsivo) e l’anaffettività familiare che si marmorizza, diventando impenetrabile, anche quando le premesse sono buone.

In famiglia il potere interno è garantito dalle disgrazie. Le cure e le attenzioni possono essere rilasciate solo davanti alla catastrofe imminente […] nel male ci si può finalmente dire che ci vogliamo bene. Non è una mancanza d’amore, questo lo capirò da grande, ma una paura a lasciar passare troppo l’affetto, perché chi non è abituato a riceverlo fa fatica a gestirlo […]. Se la tenerezza viaggia contigua alla malasorte, faccio in modo di procurarmi piccole sciagure costanti per garantirmi una dose sufficiente di premure.”

Lo stile

Ho trovato lo stile di Tagliaferri tagliente e contemporaneo, in grado strizzare l’occhio a un certo gusto per il macabro. Questo è bastato a convincermi? Assolutamente no. Purtroppo non ho trovato la spinta in questo romanzo, non ho capito l’intenzione dell’autrice.

Il libro mi è scivolato addosso come una sottoveste di tessuto sintetico: comoda ma che fa sudare. Facilmente dimenticabile.