Domenica 16 luglio 1972.

 

No, dai, davvero? Ma chi giocherebbe mai di domenica?
Nello specifico: un russo ateo contro un americano ebreo – accompagnato in Islanda da un sacerdote cattolico – che si dichiara però adepto di una setta tipo testimoni di Geova.

 

E che comunque, tecnicamente, non è nemmeno circonciso.

Siamo in piena Guerra Fredda, a Reykjavìk, e nell’estate del 1972 si sta giocando la finale mondiale di scacchi.

I due avversari sono rispettivamente Bobby Fischer per gli Stati Uniti, e Boris Spasskij per la Russia. Già dalle premesse è chiaro che non si tratta solo di una finale di scacchi ma sotto c’è molto di
più, una tensione politica oltremisura palpabile.

Il mondo è mobilitato per questo evento straordinario, la scelta infatti dell’Islanda non è casuale. Anzi, dopo diverse contrattazioni è stato scelto come lo stato più neutrale e ad equa distanza tra Russia e Stati Uniti.

Se Spasskij è un giocatore “tipo”, accompagnato da allenatori, psicologo e un intero entourage di sostegno, lo stesso non si può dire di Fischer, geniale e matto come un cavallo allo stesso tempo, una persona dal brutto carattere, schivo e maleducato, e pretenzioso.

Prima di arrivare a Reykjavìk rimanda diverse volte la partenza, si presenta in ritardo e se ne frega, insomma, sicuramente non un personaggio che si fa benvolere con facilità.

Bobby è quel classico “eroe” che ami e odi contemporaneamente, perchè è totalmente sopra le righe, esagerato e affascinante. Boris invece, apparentemente più pacato e “sottone” si rivela in realtà, dal mio punto di vista, il vero protagonista della storia grazie alla sua educazione e professionalità.

La storia è principalmente incentrata su questo evento che a molti è conosciuto ma l’aspetto assolutamente inedito è l’analisi dell’autore, il quale paragona Fischer e Spasskij rispettivamente ad Achille e Ulisse.

Achille è un eroe, acclamato da tutti e sapendo ciò che vale, si fa desiderare e detta le sue condizioni per combattere. E chi può cercare di riportarlo al lume della ragione se non uno stratega come Ulisse?

Cercando di capire ancora meglio la psicologia di Fischer, Barbaglia si mette in gioco in prima persona, intraprendendo un dialogo immaginario con il padre, psicologo mancato quando l’autore era bambino, che ci aiuta ad analizzare a fondo questi due personaggi e a capire in realtà che il mondo degli scacchi è un universo a sé, superiore a qualsiasi tensione politica.

La scrittura di Barbaglia è audace e dal ritmo accattivante, sembra quasi di essere in diretta con un telecronista che racconta passo passo la partita e i retroscena.

Ho trovato l’intreccio con la mitologia greca e il dialogo con il padre rischioso ma ben riuscito, è un libro che consiglierei a tutti perchè colpisce nel segno!