Il virus dell’HIV come catlizzatore, il corpo un’arena, un anfiteatro, il mio palcoscenico: piani indistinguibili, sentire e credere di sentire. La testa onnipotente, nessuna percezione fisica senza intonazione emotiva.

Non capirò mai davvero cosa mi è successo.

Non è uno spoiler, ma sappiate che Febbre di Jonathan Bazzi, candidato al Premio Strega 2020 e vincitore del Premio OperaPrima dello stesso anno, parla di una scoperta, quella di Jonathan, protagonista e autore del libro.

Jonathan scopre di avere l’HIV. Lo scopre perché, all’improvviso, un giorno di gennaio gli viene la febbre, una febbre sfinente, annichilente che non se ne va più via.

Jonathan scopre di avere l’HIV ma quasi è sollevato: finalmente sa cos’ha.

Il tratto originale del libro è che non si racconta quello che si potrebbe credere essere il racconto di una malattia: non si ha quel climax nel momento in cui la malattia viene alla luce, non si ha nemmeno uno scioglimento, una soluzione; non si raccontano i dettagli del contagio, quelli che i più morbosi si aspettano. Il libro racconta una storia, ma non la storia di un malato, bensì quella di una persona. In questo libro ho trovato molto più Jonathan che HIV considerando anche la struttura del testo: si viaggia infatti su due binari paralleli, da una parte il racconto dell’infanzia e della giovinezza del protagonista-autore, dall’altra il presente (corre l’anno 2016). Ammetto di essermi appassionata di più al primo, complice la nitida fotografia della periferia milanese concretizzata nelle strade “a fiori” di Rozzano, tra degrado, quotidianità fatta di dialetti del sud, dicerie tra condomini, bambini che si accorgono di essere diversi e per questo costretti a vivere una vita a metà, scelte sbagliate, famiglie sbagliate, ma anche desiderio di rivalsa.