Forse che una cosa come “il fatale errore”, quell’appariscente, cupa frattura che taglia a metà una vita, può esistere al di fuori della letteratura? Una volta pensavo di no. Ora sono dell’opinione contraria. E penso che il mio sia questo: un morboso, coinvolgente desiderio verso tutto ciò che affascina.
À moi. L’histoire d’une de mes folies.
E voi, giustamente, leggendo questo incipit penserete “sti c4zz1!”
E come darvi torto?
E come fare a dirvelo che Dio di illusioni di Donna Tartt mi è piaciuto sì ma… con riserva?
Un po’ mi sento in soggezione a non essermi innamorata della penna di una donna Premio Pulitzer (ottenuto dalla Tartt nel 2014 con Il cardellino), ma la letteratura è anche questo, me lo confermate dalla regia?
Ebbene, vediamo di mettere in ordine le idee, che sono molte e confuse
Dio di illusioni narra la storia di Richard Papen, ragazzo californiano proveniente da una famiglia tanto disinteressata quanto economicamente fragile, che decide di iscriversi all’Hampden College, in Vermont, nulla di più lontano da ciò a cui lui fosse abituato.
Richard non ha particolari velleità accademiche, tutto ciò a cui mira è liberarsi dalla cittadina di Plano e dal destino dei suoi genitori.
Sceglie addirittura Hampden “per uno strano scherzo della sorte. Una sera […] mi misi a rovistare furiosamente nell’armadio a muro […] ed ecco che saltò fuori: un opuscolo sull’Hampden College, Vermont. Non so perché fosse nel mio armadio a muro. Immagino che lo avessi conservato perché era così grazioso… Sempre nell’ultimo anno delle superiori, avevo trascorso dozzine di ore a studiarmi le fotografie: se le avessi osservate abbastanza a lungo, pensavo, e con un desiderio abbastanza intenso, sarei stato trasportato, in virtù d’una sorta di osmosi, nel loro limpido, puro silenzio.”
Richard che sceglie il suo futuro perché vede una bella immagine, che dire, Richard uno di noi!
Non sa però che questa scelta lo porterà ad una serie di eventi che lo segneranno per sempre.
Ad Hampden infatti Richard entra a far parte di un ristretto gruppo di studenti che gravitano attorno al corso di greco antico, nonché al docente che lo tiene, il carismatico professor Julian Morrow che nell’insegnare la materia, trasmette ai ragazzi anche quei valori e quei moti dell’animo che animavano gli antichi.
Il romanzo si apre con un omicidio, ma questo non fa di Dio di illusioni un thriller (come spesso viene etichettato) in quanto conosciamo già chi è la vittima e chi è il carnefice (e relativi complici).
Ciò che rimane da scoprire è: perché un gruppo di ragazzi decide di ucciderne uno che è intestino alla loro elitaria combriccola? E quali saranno le conseguenze?
Ci sarebbe talmente tanto da dire su questa mastodontica opera che, se voglio uscirne, mi trovo costretta a mettere in evidenza ciò che mi è piaciuto e ciò che invece non mi ha convinta.
Non posso che togliere il cappello di fronte allo stile tarttiano, che riconosco alto nella sua apparente semplicità.
Altresì debbo ammettere che la parte iniziale mi ha coinvolta in una lettura rocambolesca: volevo sapere come si sarebbe arrivati all’omicidio e il ritmo del romanzo ha consentito di avvicinarmici senza fatica.
D’altra parte ho riconosciuto delle pecche che naturalmente si rifanno unicamente al mio gusto e alla mia personale esperienza di lettura.
Se la parte iniziale si è fatta leggere come si fa mangiare un gelato al limone in una calda giornata di luglio, molte altre mi sono sembrate inutilmente diluite, fra tutte quella in cui si racconta il funerale di Bunny (il ragazzo ucciso). In questa sezione ammetto di essermi avvalsa del sacro diritto del lettore di saltare delle pagine.
L’esperienza di lettura di Dio di illusioni mi ha ricordato quella di Delitto e castigo: in entrambi i casi, a seguito di un delitto, non ci si sofferma granché sul senso di colpa quanto piuttosto sulla paura di essere scoperti, che per carità, posso capire, ma trovo il senso di colpa molto più letterariamente interessante!
E’ vero, ogni componente della combriccola ha delle ripercussioni per quanto fatto, a livello fisico e psicologico.
Dall’omicidio vi è un crescendo di malesseri da parte dei ragazzi: attacchi di panico (Richard), l’acuirsi di chiari disturbi di personalità e problemi di alcolismo (Charles).
Mi è sembrato tuttavia che lo spazio riservato ad una reale presa di consapevolezza di aver ucciso un amico abbia lasciato il tempo trovato.
In generale, e non saprei davvero dire se questo sia un aspetto negativo o meno, ho trovato i personaggi molto criptici e distaccati. Impossibile empatizzare con chiunque di loro.
Forse, nel suo essere odioso e pericoloso per il gruppo, l’unico ad aver mantenuto l’umanità è stato Bunny, ed ecco quello che ci insegna la Tartt: a perseverare l’umanità si fa la fine del topo.
Per quanto riguarda gli altri, Henry e Camilla rimangono sempre adombrati da un’aura di totale ermeticità; Charles rivela sé stesso solo alla fine, Francis poteva esserci come non esserci.
Il sole sbucò improvviso dietro una nuvola, inondando la stanza di una luce meravigliosa, tremula sulla parete al pari d’un riflesso d’acqua. Il volto di Camilla sbocciò radioso. Una dolcezza ineffabile mi invase; per un istante tutto – specchio, soffitto, pavimento – assunse la fluttuante e luminosa consistenza di un sogno. Sentii imperioso il desiderio di afferrare Camilla per il polso ferito, torcerle il braccio dietro la schiena fino a farla urlare, gettarla sul letto: strozzarla, violentarla, non so che altro ancora. La nuvola ripassò sul sole, e la vita si spense in ogni cosa.
Forse la potenza di questi personaggi sta nella loro veridicità: anche nella vita quotidiana spesso ci è impossibile capire le persone, tanti pensieri sono filtrati dalla bocca di altri, tante costruzioni sono frutto di nostre proiezioni.
Molto di questo libro rimane oscuro, nascosto, ermetico.
Anche Richard, dal quale sentiamo narrare le vicende in prima persona, non sempre si fa capire dal lettore.
L’episodio scatenate delle vicende descritto anche in quarta di copertina come un baccanale a base di sesso, droga e rock’n’roll (del quale, manco a dirlo, ero curiosa come una capra dell’Himalaya) viene sì raccontato dai ragazzi, ma senza spiegarlo per bene, lasciando in mano al lettore tantissimi punti di domanda.
Infine, e qui potrei davvero cannare alla grande, vado a quello che a mio avviso potrebbe essere il Dio di illusioni del titolo: il professor Julian Marrow.
Dovrebbe essere colui che, tramite il suo carisma e la sua capacità di trasmettere i valori e le credenze degli antichi, avrebbe dovuto irretire le menti dei giovani studenti-adepti, portandoli ad una strada di perdizione. Ebbene, non ho mai avuto mai questa sensazione nei confronti di Julian. Ok, ammetto che possa essere descritto come una persona eccentrica e selettiva e perciò affascinante, ma nel complesso narrativo, come tutti gli altri personaggi, il prof mi è sembrato sfuggente e, alla fine, anche piuttosto vile.
Altro che Dio, Julian mi è sembrato lo stronzo amicone degli studenti fin tanto che viene idolatrato, lo stesso che poi se la squaglia quando c’è da rimettere insieme i pezzi. Una delusione d’uomo. Una delusione di personaggio.
– La morte è la madre della bellezza – disse Henry
– E che cos’è la bellezza? –
– Terrore –
– Ben detto! – Esclamò Julian. – La bellezza è raramente dolce e consolatoria. Quasi l’opposto. La vera bellezza è sempre un po’ inquietante –
Guardai Camilla, il suo volto risplendente al sole, e pensai a quel verso dell’Iliade che amo tanto, su Pallade Atena e i suoi terribili occhi sfavillanti.
– E se bellezza è terrore – proseguì Julian, – cos’è allora il desiderio? Riteniamo di avere molti desideri, ma di fatto ne abbiamo soltanto uno. Qual è?-
– Vivere – rispose Camilla.
– Vivere per sempre – aggiunse Bunny, col mento sulla palma della mano.
La teiera cominciò a fischiare.
Mi rendo ben conto che metà dei miei disappunti siano legati alle alte aspettative che avevo su questo libro, come ormai sempre più spesso mi accade. Tuttavia l’eco di questo libro era talmente grande che non poteva essere altrimenti.
In sintesi (anche se, a quanto pare non è il mio forte), ricorderò questo libro come un gelido inverno: indimenticabile per l’intensità, fastidioso per la sensazione generale.
Ecco, mi sentirò sempre come Richard quando si è dovuto cuccare l’inverno gelido nella pensione diroccata di Hapden.
Chissà se arriverà Henry a salvare anche me.